Storie di Olbia: racconti dall’Isola Lepre

Dietro la trafficata via Roma, una delle principali arterie di Olbia, c’è un’isola dal nome curioso: l’Isola Lepre. L’archeologo Agostino Amucano, dopo approfondite ricerche, è riuscito a ricostruire per quanto possibile la storia del luogo e a raccontare, in un articolo pubblicato sulla bella rubrica online Olbia Che Fu, i movimenti a luci rosse che si svolgevano proprio qui, in questo lembo di terra collegato alla terraferma.


Nell’isola Lepre oggi rimangono solo ruderi e purtroppo diversi rifiuti, ma visitandola si riesce ad immaginare il via vai descritto da Amucano, lo studioso che ha raccolto materiale fotografico d’epoca, risalente al secolo scorso, nonché testimonianze sulla famosa “caccia alla lepre”.

Molti uomini, infatti, si recavano sull’isolotto in bicicletta al calar del sole, accorti per non essere riconosciuti dai residenti delle case popolari, ma non erano muniti di fucili da caccia, perché la selvaggina ambita era di altro tipo, e per intenderci…

Tale Calèschidu – riporta Amucano – un bel giorno di Maggio inforcò la bici per raggiungere l’isola, e il fido compagno di bevute gli domandò: “O Caleschidu, e inùe ses andende de pressa a cust’ora? (“O Gongolante, e dove stai andando di fretta a quest’ora?”) e quello rispose “A lepperare so’ andende.” (trad. “A cacciare lepri sto andando”). 

La storia dell’isola Lepre… e del mestiere più antico del mondo

Durante i primi anni ’50 la prostituzione era regolata dallo Stato. Era il tempo delle cosiddette case chiuse e fu così che nell’isola Lepre, a Olbia, si insediò una comunità femminile che esercitava il mestiere più antico del mondo.

Esistevano quattro strutture di diversa dimensione, disposte a semicerchio attorno al piccolo piazzale situato al termine della sterrata di accesso.

L’unico uomo della comunità, si racconta, era un certo Zio Girolamo, un signore avanti con gli anni.

Fidato e riservato, si occupava all’occorrenza di ristabilire l’ordine qualora i clienti del lupanare si lasciassero andare ad atteggiamenti violenti o arroganti.

Dalle testimonianze raccolte da Amucano, emerge che l’atmosfera della casa chiusa non era delle più brillanti.

Si trattava di un posto abbastanza squallido da essere definito da qualcuno come “due catapecchie”, eppure assiduamente frequentato.

Il costo delle prestazioni, che si aggirava attorno alle trecento lire, si pagava alla cassiera, la quale rilasciava come ricevuta il tagliandino, detto anche “marchetta”.

Come ogni azienda –sottolinea Amucano- ci si preoccupava di fare buon marketing.

Per far “andare il carro”  la casa chiusa organizzava dei giri promozionali nel centro di Olbia: le donne sfilavano in una carrozza aperta, molto truccate e vestite in modo provocante, con l’immancabile bocchino della sigaretta, forse l’unico elemento di classe.

Fra i racconti spicca quello dell’arrivo di un’esotica continentale, fatta sostare in modo strategico in Piazza Regina Margherita per catturare gli sguardi di tutti.

Non mancavano le donne sarde. Molte di loro esercitavano l’attività per questioni di povertà, e a quanto pare erano molto ricercate. Una ragazza di Olbia venne cacciata dalla casa paterna, rinnegata come figlia e sorella, e costretta a vivere sull’isola Lepre fino alla Legge Merlin del 1957.

A quel tempo tutti sapevano dell’esistenza della casa chiusa, ma l’argomento era tabù, tranne che fra le donne per bene, quando erano in confidenza.

Internet non esisteva, gli smartphone nemmeno, ma le olbiesi  avevano i loro assi nella manica. Erano abilissime nel costruire una rete fatta di passaparola, per tutelare le relazioni e stanare i mariti fedifraghi.

Fonte: LaDonnaSarda

Autrice: Eleonora D’Angelo

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